Dipendente non vaccinato: legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione

L’attuale crisi sanitaria ha rivoluzionato completamente il nostro modo di vivere, di agire, di reagire e di pensare.

Per la prima volta in assoluto, la pandemia da Sars-Cov 2 ha portato gli stati ad una collaborazione internazionale per la ricerca e la sperimentazione di un vaccino in grado di contenere il contagio e ridurne gli effetti, in alcuni casi addirittura mortali.

Oggi, è proprio la somministrazione del vaccino anti-covid al centro di un ampio dibattito che tocca i più generali principi alla base del nostro ordinamento, come il diritto alla salute e il diritto al lavoro.

La questione più dibattuta, in particolare, è quella relativa alla possibilità o meno di rendere obbligatorio il vaccino.

Tale questione assume una declinazione ancor più delicata qualora la vaccinazione sia intesa quale presupposto per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

È evidente, infatti, che virare verso questa soluzione scaturirebbe non poche proteste da parte dei molti che, per le più svariate ragioni, non vogliono (o non possono) vaccinarsi.

Ciononostante, l’art. 4 del D.L. n. 44/2021 ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19 per il personale sanitario.

La previsione normativa è arrivata in modo assai rapido, tenuto conto del gran numero di contagi avvenuti all’interno degli ospedali e, allo stesso tempo, per il ruolo delicato di infermieri e medici, ogni giorno a stretto contatto con soggetti deboli e “a rischio”.

Ex adverso, il dibattito è virato verso le altre professioni, dove la necessità di introdurre l’obbligo alla vaccinazione sembra incontrare montagne ben più alte da scalare.

Tuttavia, aumentano con grande rapidità le pronunce con cui i giudici di merito ritengono legittima l’adozione da parte del datore di lavoro della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente non vaccinato.

I due provvedimenti più importanti, quelli del Tribunale di Roma e del Tribunale di Modena, riguardano in particolare lavoratori assunti per prestazioni che prevedono il contatto diretto con il pubblico e senza la possibilità per il datore di adibirli a mansioni differenti.

D’altra parte entrambe le pronunce chiariscono che la sanzione non si fonda sul rifiuto del lavoratore di sottoporsi al vaccino, bensì sulla incompatibilità (se non altro parziale) della sua scelta con l’esecuzione della prestazione lavorativa e, più nello specifico, con gli obblighi di salute e sicurezza, alla luce della disciplina prevista all’art. 2087 c.c. e dal D.Lgs. n. 81/2008.

Pertanto, il datore di lavoro potrebbe legittimamente rifiutare di ricevere la prestazione lavorativa e quindi sospendere il pagamento della retribuzione.

In questo senso, l’unico tassello che sembra mancare è proprio un obbligo espresso alla vaccinazione.

Invero, quantomeno sulla carta, ogni lavoratore sarebbe libero di rifiutare il vaccino, senza alcuna ripercussione sul rapporto di lavoro, stante quanto previsto dalla Costituzione all’art. 32, comma 2:

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Sul questa controversa questione si è allora cimentata anche la dottrina, a sua volta divisa in due differenti correnti di pensiero.

Il primo orientamento da rilievo al generale obbligo ex art. 2087 c.c., per cui la sanzione comminata sarebbe suffragata dall’obbligo in capo al datore di lavoro di predisporre tutte le misure necessarie ad assicurare l’integrità psico-fisica del lavoratore.

Il secondo orientamento, più rigido, ritiene legittima la sospensione solo ove si fondi su un giudizio di inidoneità/idoneità con limitazioni alla mansione del medico competente.

In quest’ultimo senso è orientata la pronuncia del Tribunale di Roma, il quale decretava la legittimità della sospensione di un lavoratore che il medico competente aveva dichiarato idoneo, ma con limitazioni connesse proprio alla mancata vaccinazione anti-covid.

In pratica, egli era impiegato presso una residenza assistenziale e la natura delle sue mansioni imponeva un contatto diretto con gli ospiti “fragili” della struttura, senza alcuna possibilità per il datore di lavoro di adibirlo a mansioni che ne escludessero l’avvicinamento fisico.

Così, il datore di lavoro lo sospendeva, in ragione dei rischi per l’utenza, a causa proprio dalla mancata vaccinazione

Sul punto, il medesimo organo giudicante chiariva che

la comunicazione datoriale non costituisce un provvedimento disciplinare per il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione, bensì un doveroso provvedimento di sospensione adottato stante la parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice. In questi casi, infatti, il datore di lavoro ha l’obbligo di sospendere in via momentanea il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto ai sensi dell’art. 2087 c.c.” (Tribunale di Roma, sez. II lavoro, ordinanza del 28.07.2021)

Di seguito, riprendendo quanto già esposto dal Tribunale di Modena con riguardo alla sospensione di due fisioterapiste di una RSA, ammoniva:

Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. (…) I lavoratori devono in particolare contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” (Tribunale di Modena, ordinanza del 19.05.2021).

Alla luce di un tanto, appare evidente che l’orientamento della giurisprudenza su questo tema è frutto di un delicato processo di bilanciamento di diritti fondamentali: il diritto alla salute nei luoghi di lavoro e il diritto al lavoro.

É inutile in questa sede dilungarsi sul valore fondamentale di questi diritti costituzionali.

Rileva invero concentrarsi su quale sia il ragionamento alla base della decisione del giudice di merito.

Stante il tenore costituzionale di entrambe le pretese, infatti, diviene necessaria, come anticipato, un’operazione di bilanciamento per accertare, al caso concreto, quale far prevalere.

Se è vero, come noto, che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (Art. 1, Costituzione), parimenti il diritto alla salute, ad oggi, è un tema che ha trovato ampia tutela e riconoscimento con riguardo al luogo di lavoro, in special modo con il D.Lgs. n. 81/2008, il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con cui sono stati introdotti rigidi obblighi in capo (soprattutto) al datore di lavoro.

Quest’ultimo, infatti, è chiamato al gravoso compito di individuare ed adottare le misure necessarie a garantire l’integrità psico-fisica del lavoratore, in modo da informarlo, equipaggiarlo e preservarlo dai pericoli insiti nei luoghi della prestazione.

D’altra parte, il Testo Unico volge lo sguardo anche al lavoratore, il quale è in ogni caso chiamato a “prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni (…)” (Art. 20 – Obblighi dei lavoratori, D.Lgs. n. 81/2008).

Sembra allora che i giudici di Roma e Modena abbiano deciso di far prevalere il tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro piuttosto che il diritto al lavoro del singolo. Questa scelta – seppur per certi aspetti “impopolare” – si pone in assoluta coerenza con i principi fondamentali del nostro ordinamento, in cui l’interesse del singolo cede di fronte all’interesse della collettività.

Nel caso di specie, l’interesse collettivo sarebbe rappresentato dalla necessità di garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali.

A ciò si aggiunga l’approccio rigoroso del solito Tribunale di Modena, secondo cui gli studi clinici finora condotti hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19.

In conclusione, si può affermare che, nonostante i moti di protesta che probabilmente ne verranno, la giurisprudenza è sempre più incline a riconoscere la legittimità del provvedimento sanzionatorio comminato al lavoratore no vax.

 

 

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